lunedì 15 agosto 2016

La Brexit rimandata e i tempi reali della democrazia

Ho letto stupore e disappunto in seguito alle dichiarazioni della nuova premier britannica Theresa May sulla probabilità di posticipare l'avvio delle trattative per l'uscita dall'UE a dopo le elezioni in Francia e Germania, previste per il prossimo anno. Un "ritardo", come è stato definito anche dai media inglesi, che potrebbe portare all'uscita dall'UE non prima dell'autunno 2019. Onestamente non c'è nulla da criticare nel voler aspettare le elezioni di Francia e Germania, visto che per negoziare è necessario che gli interlocutori siano chiari. Trovo invece disarmante il fatto che i tempi della politica e della democrazia siano spesso poco compresi da più parti. Il referendum sulla Brexit era consultivo. Una consultazione del popolo britannico, che deve poi essere ratificata dal Parlamento facendo ricorso all'art. 50 del trattato di Lisbona da parte della premier, e poi successivamente si aprono in negoziati. L'art. 50 del trattato di Lisbona stabilisce inoltre che dopo i negoziati l'uscita dall'UE debba comunque essere ratificata dagli stati membri, quindi i passaggi non sono né semplici né rapidi né dall'esito scontato.
Ma i cittadini lo sapevano che non stavano uscendo da un gruppo Facebook? Che si tratta di uscire dall'Unione Europea, e che questo ha conseguenze politiche ed economiche sulla vita di tutti i cittadini dell'UE? Dopo il referendum c'è stata una destabilizzazione dei mercati, e questo ha causato altre reazioni simili: "adesso che avete destabilizzato il mercato, andatevene". Un'immensa, inspiegabile semplificazione, che tra l'altro pone anche il preoccupante tema della sovrapposizione tra politica ed economia nella percezione comune. L'idea ormai diffusa e comunemente accettata è che i mercati dettino legge, quindi se un comportamento politico destabilizza i mercati va risolto subito, come una mera pratica burocratica, non serve più trattativa né dibattito l'importante è tranquillizzare il mercato, per cui secondo questo sentire comune non possono esistere punti di vista diversi da confrontare se un punto di vista e un certo tipo di approccio è stato "sottoscritto" dalle borse. Un'economia dipinta come una forza che va oltre la giustizia sociale, la legittimità dei comportamenti, la rappresentanza democratica. E i meccanismi della rappresentanza democratica per fortuna sono complessi proprio per garantire da ogni parte pesi e contrappesi, perché non vi sia una dittatura dei numeri né delle banche ma una sinergia di forze, un lavoro composto da più parti e da più fasi che vanno osservate e solo dopo analizzate una ad una. 
Al dispiacere di pensare a un Paese che sento a me vicino per averci passato del tempo a lavorare e studiare all'università, si unisce il dispiacere di vedere tante persone "fare il tifo" per una loro uscita rapida dall'Unione semplicemente perché hanno affrontato una prima consultazione tra i cittadini. i passi successivi al momento non li conosciamo perché si tratta di un primo caso (speriamo unico), e spero saranno dettati non dall'economia e dalle speculazioni di borsa ma da un lavoro serio e comune di dialogo e apertura. Quello che temo in realtà è che nel racconto dei processi in corso prevalga una chiave di lettura in cui l'economia ha un'autorevolezza mentre la politica non ne ha più, con un tentativo mediatico di esautorare in qualche modo il lento e legittimo processo democratico in favore di un tempo standard stabilito dalla prima fase di quello stesso processo: il referendum, erroneamente raccontato come un punto fermo definitivo con conseguenze certe e già decise. Nulla è ancora deciso, le decisioni devono essere frutto di un confronto vero e concreto e non dell'acclamazione del popolo. Ridiamo fiducia alla politica, all'Europa, al compromesso nel senso più alto del termine e al tempo necessario perché avvenga una reale mediazione.



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