domenica 13 novembre 2016

Non analizziamo la sconfitta di Hillary: dobbiamo capire come è nata la vittoria di Trump

All'indomani della vittoria di Trump, occorre porsi delle domande sul ragioni di questo inaspettato successo e sulle ragioni della sconfitta della candidata che tutti davamo per favorita: una donna colta, preparata politicamente, competente in quanto con un'esperienza diretta alla casa bianca di 8 anni come first lady, ex segretaria di Stato e senatrice, con una lunga vita al servizio del suo popolo e una rete di rapporti diplomatici e internazionali costruiti nei decenni. Su come sia stato possibile che il popolo americano abbia in parte detto "non voto perché non c'è un candidato di colore" (la parte degli elettori riportati alle urne solo da Obama e rimasta a casa in queste ultime elezioni), in parte "non voglio una donna presidente" ma soprattutto come sia possibile che la maggior parte degli americani non abbia saputo dire "non voglio un miliardario volgare e ridicolo come presidente". Dunque la donna preparata è un taboo, la volgarità e l'arroganza non lo sono? Possiamo aspettarci un'altra donna che arrivi a rompere il soffitto, magari nel 2020? L'intelligenza, la competenza e l'esperienza non hanno quindi valore nella scelta di chi avrà in mano una parte così consistente del destino mondiale? Per un'ampia parte della popolazione contano il sesso e il colore della pelle, ma non l'intelligenza e la preparazione politica e diplomatica? 
Qui i risultati in percentuale stato per stato
Durante la campagna elettorale, Trump ha lavorato sul concetto di nemico, trovando nemici nell'islam, nei migranti, nella finanza: oggetti facili da essere usati come destinatari della rabbia. Nella storia degli Stati Uniti c'è una predisposizione culturale alla costruzione di una figura di "nemico comune" su cui concentrare le energie per non vedere se stessi e per giustificare la produzione di armi, che si è esplicitata dalla caccia alle streghe al McCarthismo alle più recenti scelte riguardanti l'Iraq. Una cultura diffusa soprattutto in quella parte degli USA che vive lontano dalle grandi metropoli, lontano dalla commistione culturale e dall'intreccio della multietnica New York. Quegli statunitensi che non hanno un passaporto (il 65% degli americani secondo i dati del 2012) perché non hanno mai messo un piede fuori dai confini nazionali, quelli che sentendo le parole di Obama contro Putin non si sono sentiti partecipi: i russi non sono più visti come diversi perché avendo fatto proprio il capitalismo, sono consumatori degli stessi prodotti degli americani. E se c'è un problema con i diritti umani, è in una parte del mondo geograficamente lontana e quindi non sentita: il cittadino statunitense non prova probabilmente empatia per il cittadino di Aleppo, considerato che tiene un'arma in casa per difendere i propri beni materiali dai potenziali ladri. In questo senso forse Obama è stato eccessivo nell'investire tempo in campagna elettorale per criticare la Russia: la Russia era un nemico del passato, ma il nemico era il comunismo come forma di governo e non i russi in quanto tali, che ora essendo parte integrante del mondo occidentale non hanno affatto scaldato gli animi. La lotta per il controllo in medio-oriente tra Obama e Putin non parlava alla pancia, all'istinto di chi deve trovare nell'altro un colpevole dell'abbassamento del proprio tenore di vita. Il nemico comune che ha proposto Trump, da una parte l'Islam, dall'altra l'immigrazione intesa come fenomeno vicino, che coinvolge la propria città e la propria comunità locale imponendole un cambiamento, ha dato una risposta a chi aveva mal digerito l'uguaglianza sentita dai propri concittadini di colore dopo 8 anni con Obama. Le parole di Trump hanno parlato a quella parte del popolo americano che vuole essere "grande" a discapito di chiunque altro perché l'altro è fuori, lontano, diverso e quella parte del popolo non desidera in alcun modo che non lo sia: l'uomo bianco protestante nel corso dei pochi secoli di storia americana si è distinto per aver inseguito il mito calvinista del "ricco benedetto da Dio" e non per il desiderio di considerare uguale a sé tutti gli altri. 
Lo stupore è nato forse dal fatto che si pensava di aver superato culturalmente quel modello anche grazie ad Obama. Che l'elezione di un presidente di colore avesse segnato un cambio di rotta. Invece i dati sull'età, la provenienza geografica e il livello di istruzione degli elettori ci mostrano un uomo bianco, over 45, con un basso livello di istruzione e che vive lontano dalle metropoli che vota repubblicano. 

Grafico dall'account Twitter di Philippe Berry 

Dunque lo stupore possiamo lasciarlo indietro, alla maratona elettorale, al momento del discorso mattutino che pareva più quello di una miss che di un presidente degli Stati Uniti, e cominciare a chiederci se queste persone avessero la preparazione, la volontà, la predisposizione a entrare nel cambiamento in atto e farlo proprio. Se questi cittadini fossero in grado di vedere la complessità della globalizzazione e le sue infinite difficoltà ma anche possibilità, o se non fossero cittadini già predisposti ad un racconto semplificato delle problematiche e per cui non costituissero in effetti un ottimo pubblico per le invettive di Trump contro il "nemico" costruito ad arte per rispondere al bisogno di rassicurazione. Non vi è stata una scelta del meno peggio, come alcuni hanno ipotizzato. Non vi è stata solo una astensione al voto di una parte di coloro che alle primarie avevano votato Sanders (non eccessiva comunque ma concentrata in alcuni stati tra quelli persi tra le elezioni del 2012 e quelle del 2016). Vi è stato un vero e proprio fenomeno di ritorno al passato, tanto che nell'osservare la suddivisione del voto per fasce di età si nota come negli elettori più giovani abbia prevalso lo sguardo rivolto al futuro e la scelta di Hillary Clinton presidente. 
Un capitolo a parte - ma non tanto a parte - merita la riforma della sanità fortemente voluta da Obama: per noi europei che consideriamo la sanità pubblica sostanzialmente un diritto acquisito, rimane probabilmente inconcepibile come alcuni cittadini americani non fossero soddisfatti  dell'apertura dei servizi sanitari essenziali a tutti. Pare un tema sostanzialmente differente rispetto al razzismo e al sessimo, ma non lo è: la base di partenza è la stessa, l'insicurezza di chi credeva di avere un privilegio in qualche modo meritato in quanto lavoratore oltre un certo reddito che si vede tolte le proprie prerogative, vede livellato il proprio status sociale con chi riteneva non essere parte del suo mondo. Il filo conduttore è il medesimo, un diverso che si vuole che rimanga tale perché accettarlo e inglobarlo a pieno titolo nella società è troppo faticoso e richiede troppi strumenti culturali di comprensione, di mediazione, troppa predisposizione al cambiamento e a essere essi stessi parte del cambiamento. 
Quindi la rivoluzione-Obama ha fallito? Certamente no. I semi una volta gettati e sparsi non possono che crescere rigogliosi e viaggiare trasformandosi in idee e progetti di altri uomini e altre donne e porteranno probabilmente degli ottimi frutti in futuro. Ma per questa volta l'America rurale, calvinista nel senso più antico del termine ha dimostrato di avere radici più profonde di quanto credessimo. Come una pianta moribonda ma con forti radici e appigli, tenta disperatamente di recuperare il proprio terreno per non essere soppiantata dalla bellezza di una parità sessuale, razziale e di classe che andrebbe a cambiare ancor più profondamente il tessuto sociale di quegli Stati. 


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